KIKI

Personalmente ho ormai perso i conti dei giorni in cui abbiamo imparato a convivere accerchiati da un clima di incertezza, paura e ansia.
Ormai il pericolo sembra passato e i fatti recenti sembrano più a servizio dei giornalisti e delle testate che della scienza o del popolo, quantomeno da noi in Italia.
Ricordo che nella lingua giapponese la parola kiki vuol dire “crisi, situazione di pericolo”. Questa parola è però composta da due kanji (ideogrammi) che sono traducibili in italiano con le due parole pericolo+opportunità; devo riconoscere che mai parola fu più calzante nel descrivere il momento storico attuale, probabilmente irripetibile almeno per quanto riguarda alcuni aspetti.

Immediatamente ci siamo ritrovati in una condizione in cui tutto ciò che l’economia, la tecnologia e la scienza avevano “costruito” come un’armatura attorno all’essere umano si è trovato a confrontarsi con la primordiale semplicità della sua stessa esistenza, insieme alla sua precarietà. La paura che ha contraddistinto queste settimane da #rinchiusiincasa si è alternata ad una maledetta “urgenza di vivere” che ci ha spinti ad imparare ad aprirci verso il prossimo facendoci dimenticare di noi stessi per (pre)occuparci degli altri, facendoci (ri)scoprire i vicini di casa, le associazioni di solidarietà e portandoci probabilmente a riflettere sulle scelte di ogni ordine e grado fatte in tempi di “pace”, probabilmente distratti perché troppo occupati a pensare ad altro.

Per molti di noi che vivono il proprio lavoro in maniera totalitaria, il periodo appena trascorso è risultato disarmante, abituati ad “essere” solo nel momento in cui “facciamo”.

Umberto Galimberti, filosofo, scrive “E’ un momento di sospensione, specie dalla frenesia quotidiana. Mi dicono: per molti è un valore positivo, per altri un monito del fato. Io penso che la sospensione ci trovi soprattutto impreparati: ci lamentiamo tutti i giorni di dover uscire per andare a lavorare, ma se dobbiamo fermarci non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando.”

Ecco che immediatamente ognuno di noi si riorganizza, allo stesso modo in cui la Natura, approfittando della nostra assenza, si riprende i propri spazi.

Tutto ciò si è reso possibile grazie all’espansione delle “connessioni” con gli altri, sfruttando una tecnologia già esistente ma su cui probabilmente volgevamo lo sguardo solo in occasioni particolari.
Molti di noi hanno quindi abbandonato le proprie confort zone abituali (chiudendo i propri studi dove negli anni abbiamo imparato a muoverci e a convivere con clinica e burocrazia), per cercare e provare nuove vie di comunicazione e di relazione con i propri pazienti.

Penso che il risultato che ognuno di noi è riuscito a portare a casa sia uno e uno solo: abbiamo creato VALORE, diverso da quello legato a numeri e percentuali ma sicuramente inaspettato e allo stesso tempo dirompente.
E se a questo punto facessimo di necessità virtù e sfruttassimo le imposizioni del momento trasformandole in un nuovo modus operandi per il futuro?
Se iniziassimo a giocare una nuova partita senza per forza cercare di replicare quelle giocate finora?
Cambiare un’abitudine è come oltrepassare un muro che sembra invalicabile; questa volta non abbiamo avuto il tempo per prepararci e invece di scavalcarlo ci siamo passati attraverso.

E se adesso, voltandoci indietro scoprissimo che qualcosa di tutto ciò sarebbe stato meglio conservarlo?
Quando le cose vanno bene gran parte di noi pensa di poter controllare gli eventi. Questo è il motivo per cui ci sentiamo depressi e indifesi quando le cose vanno male. Le persone di successo sanno invece che non possono controllare gli eventi ma possono lavorare per migliorare il controllo sulle loro capacità di risposta agli eventi avversi.
Ed è quello che dobbiamo fare.

Non pensiamo a quello che abbiamo perso ma a quello che abbiamo a disposizione per raggiungere ogni giorno piccoli risultati.
Marino Niola, insegnante di antropologia, scrive: “Nel dolore di questi giorni non avvertiamo quel che di buono succederà. E’ invece c’è tanto. Anzitutto la società digitale è diventata una realtà. A una velocità pazzesca ci siamo impadroniti del computer, istituzioni impolverate ed austere, penso all’università, alle burocrazie dello Stato, si sono trovate nella condizione di apprendere prestissimo un nuovo sistema di trasmissione delle conoscenze e delle competenze. In tempi di pace ci sarebbero voluti vent’anni; in tempi di guerra, perché siamo in guerra, sono bastati venti giorni. Il computer era il segno delle nuove solitudini, di un mare sommerso che si affacciava al mondo odiandolo.. e invece le famiglie, costrette a stare a casa, hanno scoperto il valore della comunità virtuale. Questo virus ha smaterializzato la società, ha polverizzato la comunità materiale. Il distanziamento sociale è la negazione del segno quotidiano della vita. Il divieto di abbracciarsi è contro la nostra natura di uomini e, per noi italiani, anche di più. Grazie alla rete le nostre vite, invece, si sono potute tenere in piedi. La rete, che ieri ci isolava e spesso da cittadini ci trasformava in odiatori, ci collega, anzi ci unisce. E’ lo strumento che ci permette di sentirci solidali, informati, vivi.. questa guerra ci impone un’altra scoperta: riflettere e rivalutare le nostre abitudini. Eravamo piuttosto scontenti di esse e non sapevamo porre rimedio. Domani saremo costretti invece a inventarci un nuovo modello di stare al mondo. Questo sarà il lascito di un evento mai sperimentato prima e così drammaticamente pauroso.”

Quindi, al di là dell’aspetto economico che fa stare in piedi le nostre realtà e senza le quali non potremmo perseguire risultati che permettono ai componenti del nostro team e alle proprie famiglie di stare bene e alle nostre imprese di investire in nuove tecnologie, nasce l’esigenza di trovare una nuova via che ci permetta di rivedere le nostre attività, donando loro una veste nuova.

E se questo segnasse l’inizio di un nuovo periodo di (ben)essere, come di solito avviene dopo una guerra?

Probabilmente non saremo in grado di progettare il futuro alla maniera in cui eravamo abituati (o di come ci eravamo illusi di fare). Ma il futuro è pur sempre un concetto astratto. L’unico reale “futuro” è quello che continuamente creiamo per noi stessi con i contributi, progressi e risultati quotidiani. Solo così potremmo dimenticarci di chi eravamo per concentrarci su chi potremo essere.

Sarà sicuramente un mondo nuovo.
E non è detto che non ci piaccia.